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Rsa, 1 su 2 ha i mesi contati: 2mila le strutture a rischio

I centri chiudono a causa della strage dei nonni, per le presenze ridotte e la mancanza di personale. Ora si cercano operatori in Sudamerica

Nell’era Ocse il numero medio di posti letto nelle Rsa per gli anziani non autosufficienti è di 9 ogni 100mila abitanti. In Italia è di 4,5. E dal prossimo anno l’offerta, già limitata, potrebbe crollare. Il 60% delle ca­se di riposo convenzionate col sistema pubblico ha i mesi con­tati: sono oltre duemila su un totale di 3.400. la pandemia le ha strangolate, innestandosi su una condizione di debolezza e­conomica e finanziaria che si trascinava da alcuni anni, a causa del blocco delle tariffe, ferme al 2009 e mai ritoccate se non in minima parte.

Da due anni chiudono i bi­lanci in perdita, come rileva l’osservatorio Long Terme Care del Cergas Bocconi. Soprattut­to sono sfiancate dalla man­canza di personale, a partire dagli infermieri specializzati: ne mancano circa 7mila. Un’al­tra conseguenza dell ‘emergen­za. Sono stati drenati dal Servi­zio sanitario nazionale alla spa­smodica ricerca di operatori per fronteggiare le ondate pan­demiche. E sul mercato non se ne trovano più. Tanto che ora le case di riposo vanno oltre ocea­no cercandoli in Argentina, Paraguay e Perù.

«Il Sudamerica ha un modello formativo sostanzialmente i­dentico al nostro, con ordini professionali strutturati come quelli italiani – spiega Luca De­gani, presidente in Lombardia dell’associazione di categoria Uneba -. I sudamericani ap­prendono velocemente l’italia­no e si inseriscono con facilità». Solo in Lombardia alle case di riposo mancano 4mila infer­mieri. Da reclutare, adesso, all’Università cattolica Sedes Sapicntiae (Perù) e in un ate­neo del Paraguay (Nuestra Se­nora de la Asuncion). È partita anche la caccia ai medici – mancano pure quelli – ­all’Ospedale italiano di Buenos Aires. È stato realizzato anche un video promozionale per convincere studenti e giovani laureati in Scienze infermieristiche o Medicina ad attraver­sare l’oceano. La situazione è, del resto, drammatica. «Un altro anno così e chiudiamo», dice Sebastiano Capurso, presiden­te di Anaste, a cui fanno capo 350 strutture. Perché, tecnica­mente, dopo tre anni di conti in rosso il default scatta quasi in automatico.

Tutte le 14 associazioni che in Italia rappresentano la cate­goria hanno scritto al governo e alla Conferenza delle Regioni il 29 marzo scorso. Sono in attesa di risposta. «La crisi nella quale siamo avvitati sta passando sotto silenzio», prosegue Capurso. La pandemia, come sappiamo, ha fatto migliaia di vittime proprio tra gli anziani delle Rsa (circa quattromila solo durante la prima ondata, come ha accertato l’istituto superiore cli sani­tà). Una tragedia che ha ridotto le presenze di circa il 30%.

L’emergenza ha anche imposto il blocco dei nuovi ingressi, per contrastare focolai. E ha inne­scato una competizione feroce con il sistema sanitario pubbli­co per la ricerca di infermieri e operatori sociosanitari. Competizione che ha svuotato le ca­se di riposo. «Non abbiamo le potenzialità del pubblico e non riusciamo a proporre incentivi economici più allettanti», dice Gianluigi Pirazzoli, che presie­de Anaste in Emilia-Romagna. «’E sul mercato italiano non si trovano infermieri nemmeno pagandoli il 50% in più», prose­gue. Cosi, di fronte alla man­canza di personale, molte resi­denze non possono utilizzare tutta la capienza.

Una leggera ripresa, grazie al via libera all’accesso a nuovi utenti, non ha cambiato le cose. «Su 100 posti letto almeno 20 restano liberi – aggiunge Piraz­zoli – perché per garantire un servizio di qualità abbiamo ne­cessità di avere personale, che non c’è. E i nostri utenti sono anziani non autosufficienti con più patologie per i quali non è possibile l’assistenza domiciliare». La rete nazionale del­le Rsa è fatta prevalente­mente di strutture di picco­le dimensioni, con una me­dia di 60 posti letto. La retta per ogni degente è per il 50% a carico delle Regioni, per l’altra metà a carico del­le famiglie. Margini di ma­novra non ce ne sono. L’o­nere che spetta all’utente e ai suoi famigliari non può essere aumentato. Quanto al contributo pubblico non è mai stato rivisto. E quando è stato fatto, dicono le associa­zioni, è stato un ritocco così modesto da essere irrilevante.

A soffrire di più sono le strutture del Centro-Nord, dove la carenza di personale è maggio­re. Ma le chiusure possono mettere in ginocchio anche le regioni del Sud, dove l’offerta di posti è ridotta all’osso. In Sicilia e in Campania non si arriva nemmeno a 1 posto ogni 100 mila abitanti.

Natascia Ronchetti, il Fatto Quotidiano, 20 aprile 2022

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